MICKEY 17
«Com'è... Morire?»
Se c'è una domanda che il Mickey Barnes di Robert Pattinson, non importa in quale numero, si sente ripetere sino allo sfinimento in MICKEY 17 di Bong Joon-ho, è proprio questa, praticamente da chiunque, tra morbosa curiosità e un misto di apprensione.
E non è di sicuro una domanda tanto per, dato che la morte - e resurrezione via stampante - del protagonista è il leitmotiv alla base di tutta la pellicola, in questo sci-fi distorto che è poi un adattamento del romanzo "Mickey 7" (con dieci copie di meno) di Edward Ashton (lo ha pubblicato Fanucci, e ve ne parlerò non appena finisco di leggerlo).
In un futuro relativamente prossimo (possono replicare le persone, ma i giornalisti vanno ancora avanti coi microfoni col filo e una tempesta di neve può disturbare le comunicazioni in 32K), la Terra non se la passa benissimo, così ecco che, con a capo un ex deputato fallito, Kenneth Marshall (Mark Ruffalo nel suo ruolo più odioso di sempre), viene lanciata una missione di colonizzazione di un lontano pianeta, Niflheim.
L'equipaggio può avvalersi del supporto di un "Sacrificabile", il nostro Mickey appunto, ovvero di una persona che ha accettato di rendersi disponibile per fare da cavia, vittima degli eventi e qualsiasi altro pericolo si possa incorrere sulla rotta verso Niflheim. Tanto, anche se muore, la sua memoria viene salvata su un supporto "a mattone" e il suo corpo ristampato (con un effetto che ha strappato anche il sorriso a chi vi scrive) grazie ad una particolare matrice organica di cui è meglio non conoscere il contenuto.
Mickey è quello che potremmo definire un "semplice", un buono, una persona che si lascia scivolare le cose, e grazie anche all'amore della tosta Nasha (Naomi Ackie), affronta tutto questo di buon grado. Non che gli piaccia, a nessuno piace morire, non importa quante volte accade, non è qualcosa a cui ti abitui, ma lo fa, perchè il suo è un sacrificio per "il bene dell'umanità", come la propaganda di Marshall tende a ripetere come tirannica nenia.
Tutto procede "per il meglio", sino all'imprevisto: Mickey 17 non muore, a dispetto di tutto, qualcosa di surreale accade e si salva. L'uomo ritorna in branda, per trovarla già occupata da Mickey 18, fresco di stampa e con giusto un pizzico di rabbia in corpo...
Il resto non si racconta, naturalmente, perchè il film ha in serbo qualche sorpresa lungo la strada che vale la pena scoprire al cinema, mentre non è per nulla una sorpresa il fatto che Robert Pattinson sia un attore di talento, e con buona pace dei social e della scarsa memoria e conoscenza cinefila del pubblico, "Twilight" è davvero un lontano ricordo di 17 anni fa.
Un talento che si è irrobustito, cementato, alla corte di nomi come Cronenberg, Michôd, Herzog, Corbet, Nolan, Eggers e Reeves, e sotto quella di Joon-ho dà una delle sue migliori prove, sdoppiandosi non proprio letteralmente perchè Mickey 17 non è uguale a Mickey 18, e da quanto ci è dato sapere, da alcuni dettagli, ogni copia è Mickey a modo suo.
Altrettanto fa Pattinson con la sua interpretazione, c'è un Mickey Barnes di base, e da lì parte la caratterizzazione di un protagonista a cui, inspiegabilmente, iniziamo a voler bene, e proprio quando la sua indolenza ci potrebbe apparire persino fastidiosa, ecco quella nota diversa, stonata e rabbiosa, che lo identifica come persona, con quel pezzo nascosto della sua anima che quella copia - che non dovrebbe esserci - mette in luce, definendolo.
Così, nelle mani del regista sudcoreano, questa storia che, ad alcuni ha fatto pensare a "Moon" di Duncan Jones ai primi accenni di sinossi diffusa da Warner (ma non c'entra un vero nulla, vuoi perchè appunto esiste un romanzo), ad altri un classico escamotage da commedia degli equivoci (ma gli unici sorrisi sono avvolti da un profondo cinismo di fondo), si trasforma in una riflessione sulla vita, la morte, quello che ci rende veramente noi oltre che essere umani, condito con una satira non troppo velata su colonialismo, totalitarismi gestiti da coppie di potere e altri assolutismi che zone di grigio ne conoscono sin troppe.
Ci sono cose, in "Mickey 17", che funzionano benissimo, come ad esempio i Marshall di Ruffalo e una Toni Collette in stato di isterica grazia: quando Joon-ho ha detto, in una recente intervista, che in realtà il paragone con Trump è solo mera proiezione del pubblico e che in realtà la coppia è una rappresentazione di tante altre figure simili viste nel corso della storia, gli credo senza indugio. In quel grande corso e ricorso storico in cui viviamo, quel modo di muoversi, di parlare, di agire e presentarsi, si è... replicato così varie volte e in varie parti del mondo, che penso che i paragoni sia ben più ampi che quelli meramente attuali.
Il tono scelto per presentarli sullo schermo è farsesco, denigratorio, caricaturale - la scena del "talk show" - eppure, a suo preciso modo, capace di dare uno strano brivido. Forse però è solo e anche per quei denti, volutamente esagerati, in bocca a Ruffalo.
Ma ci sono altre cose che stridono un pochetto, come di ingranaggio che trova un ostacolo lungo la dentatura e in qualche modo si incrina. Nella parte centrale, superata la briosa stravaganza della situazione iniziale, ci sono punti in cui potrebbe sembrare che la storia si stia perdendo, in cui non sembra chiaro dove il cineasta voglia dirigersi, andando dietro a malizie e cattiverie puramente umane, facendo emergere quello che, per molto pubblico, potrebbe apparire un difetto più o meno grande, soprattutto in base alle sue aspettative.
Come altre volte in passato, a Joon-ho non interessa venire a patti con le ragioni produttive o di mero "intrattenimento", non interessa che ci sia una Netflix o una Warner Bros dietro alla distribuzione del suo film, compagnie per cui è più importante la lista delle cose che possono far eccitare il pubblico che non raccontare una buona storia.
Quest'ultimo è invece il suo obiettivo: affabulare lo spettatore con una vicenda che riesca a trasmettergli un messaggio. Non gli interessa lo spettacolo tanto per, non gli interessa solleticare la pancia del pubblico con esplosioni, situazioni ad effetto o mostri usciti da qualche incubo. Tutto ciò che si vede a schermo, si presenta con un fine, uno scopo ben preciso, anche quei mostri alieni, che poi così mostruosi non sono, e neanche alieni, visto e considerato che quella è casa loro, e gli alieni, gli invasori irrispettosi siamo proprio noi.
Se la trama beneficia di una particolare tensione narrativa, allora questa è la benvenuta, e il terzo atto si basa proprio su questo, perchè ad un certo punto ti rendi conto che quel racconto, scandito spesso dalla voce fuori campo del Mickey 17 di Pattinson, ti ha portato sin lì senza mai veramente scadere in facilonerie fini a sè, e ora vuoi davvero sapere come andrà a finire, anche se forse una mezza idea te la sei anche fatta.
Forse non il titolo più esaltante della sempre interessante filmografia di Joon-ho, di sicuro non di "intrattenimento da popcorn" come la campagna pubblicitaria può far credere, non pensato per far staccare biglietti su biglietti e per code in fila al botteghino, quanto piuttosto per costruirsi una sua platea di estimatori col tempo e con i passaggi casalinghi.
Con questo, non voglio certo sconsigliarvi di andare al cinema: se vi capita di vederlo a cartellone, vale la pena concedergli una possibilità sul grande schermo, perchè è un film di un regista che conosce sicuramente il suo mestiere, e che dopo i fasti di "Parasite", con tutto il mondo pronto col suo ditino puntato a giudicare, forse aveva proprio bisogno di "staccare" con un titolo di questa tenuta, per tornare più avanti con maggior forza.
Una gita di piacere tra le stelle, per inseguire ancora una volta un messaggio sociale, cosa che spesso ha caratterizzato e caratterizza le sue opere, sin da "The Host", mascherata sotto ad una cornice di genere, in questo caso fatta di corpi replicati e politicanti da strapazzo.
Un messaggio che qui arriva in misura più semplice (ma non sempliciotta, proprio come il suo protagonista), meno elaborata o "rivoluzionaria" (per quanto anche questo elemento sia presente nella pellicola), e per qualcuno, depotenziata, eppure, in un panorama di titoli sempre uguali, di... repliche che girano sempre intorno agli stessi triti concetti, è proprio la particolare riflessione di fondo a rendere "Mickey 17" un buon film.
Non un grandissimo film in termini assoluti, ma di sicuro un buon film.
Una riflessione che si esemplifica proprio in quella domanda che il film lascia filosoficamente senza risposta, attraverso gli occhi gentili di Pattinson: "Com'è... morire?".
Quel punto interrogativo è l'unica incognita che nessun macchinario potrà mai risolvere!
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