LA CADUTA DELLA CASA DEGLI USHER

 


«Sette Anime Dannate, s'Aggiravan per il Mondo...

Poi Qualcuno le ha Chiamate, per un Triste Girotondo»: citazione magari impropria, è vero, eppure non smetteva di risuonarmi in testa, mentre guardavo LA CADUTA DELLA CASA DEGLI USHER, la miniserie con cui Mike Flanagan ha chiuso la sua proficua collaborazione con Netflix.

Anche perché, a ben guardare, le sette anime in odor di dannazione sono quelle della progenie Usher, e quel "Qualcuno" che le ha chiamate a raccolta, potrebbe essere lo stesso Flanagan, così come la Verna di Carla Gugino, con quel nome che è un anagramma di "Raven".

Il Corvo. Quello di Edgar Allan Poe, dalla cui bibliografia questa miniserie pesca a mani pienissime, tirando su una rete colma di elegante malvagità, rileggendo alcune delle opere più note dello scrittore di Boston in una cornice di moderna nequzia, tra Lusso e Lussuria.

Gli Usher dominano il mondo, la loro è una famiglia che riempie i siti di notizie, i social di scandali, e i corpi di medicine che danno assuefazione (solo io sto notando come di recente su Netflix questo tema degli oppiodi sia prepotente?).

Hanno il mondo in mano, ma è qualcun altro - o forse sarebbe meglio dire, qualcos'altro - a tenere le redini del loro destino, che ha una scadenza, e ora c'è chi è giunto a presentare il conto, nei modi più poeticamente efferati che si possa desiderare vedere sino al rintocco finale.

Perché un tempo lontano, è stato stretto un patto, in un indimenticabile Capodanno, e quel peccato originale, dopo tanta fortuna, porta ora solo dolore e dramma, dando ad ognuno ciò che merita, senza fare sconti a nessuno, anche alle anime pure.


È indubbio che mi sia divertito, è stato con una sorta di perverso piacere che ho visto questi pezzi della scacchiera andare giù, episodio dopo episodio, mentre Flanagan, con gusto cinico ci mostrava le loro colpe, l'abisso di anime viziate e viziose, pronte a calpestare tutto, in primis i loro stessi sentimenti, ricchi come Creso ed infidi come serpi velenose.

Hanno tutto, gli Usher. Uno di loro possiede persino un Mjolnir originale del Thor del cinema. Ma nessuno di loro è degno, nessuno di loro merita salvezza, in una lotta all'ultimo coltello, dove l'empatia dello spettatore decide anche lei di andare in pausa e mettersi comoda sul divano. Si ridesterà solo per un momento, il più dolce e commovente, quello che strappa una piccola lacrima di rimpianto persino al Male incarnato.

Un Male che ha il volto e il corpo, sinuoso e sensuale, di Carla Gugino, che Flanagan mette su un piedistallo, lasciandola libera di dare mostra di tutto il suo maligno talento, mentre conduce gli Usher in una spirale di paranoica follia, lasciandoli liberi di stringersi da soli il cappio maledetto.

È però tutto il cast, unito, a meritare ancora una volta l'applauso, come da tradizione per queste miniserie di Flanagan: lo avevamo capito sin da "Hill House" e dai suoi film, che il cineasta ha occhio per il cast, ha continuato a confermarlo di volta in volta, e visto che questo doveva essere l'inchino del saluto, ha deciso di richiamarne quanti più possibile, in virtù di un rapporto regista-attori solidissimo, fatto di fedeltà e stima, che la penna dello sceneggiatore dia ad ognuno materiale con cui aver modo di eccellere.

Ha riunito Bruce Greenwood e la Gugino (o pensavate l'easter egg di "Gerald's Game" fosse solo per un sorriso?), ha dato a sua moglie Kate Siegel il personaggio più odioso, e a Samantha Sloyan, nuovamente, quello in cui ricercare livelli diversi di interpretazione.

Senza dimenticare Henry Thomas, ormai più che un attore feticcio, Rahul Kohli e T'Nia Miller, fantastici, al pari di un Mark Hamill, mai così infido, da puro Lato Oscuro.

E visto che la narrazione corre su più binari, alternando passato e presente, come non menzionare poi Zach Gilford e Willa Fitzgerald, perfetti doppelganger dei due pilastri Usher, Frederick e Madeline, ovvero Greenwood e Mary McDonnell, in un periodo in cui, forse e dico e sottolineo forse, erano ancora lontani dall'essere gli ottusi dominatori dell'oggi?



Il piccolo schermo non è certo nuovo alle storie incentrate su ricche famiglie, e senza dover scomodare la creazione di Jesse Armstrong, son vecchio abbastanza da ricordare cose come "Dirty Sexy Money", e spesso, in questi ritratti dei miliardari, corre sottile il desiderio di vederli andare in rovina, ma raramente, e "The Fall of The House of Usher" ne è un ottimo esempio, si ha occasione, senza troppi pentimenti, di "godere delle disgrazie altrui".

La penna di Flanagan, al pari della sua regia, cerca il Gotico più che l'Orrore in senso stretto, e in alcuni momenti, c'è questo intento quasi ironico, sferzante, che traspare dai dialoghi o dai monologhi (ormai di culto quello dei limoni, ma non è il solo), un piccolo trucco per far guardare lo spettatore verso altro, farlo concentrare sull'attore e non sul jumpscare che sta per capitargli tra capo e collo (qualcuno prevedibile, molti di sicuro effetto).

Ammantando il tutto con citazioni continue, da quelle in bella vista ad altre nascoste, magari in un nome di battesimo sin troppo peculiare.

Un autore che continua a migliorarsi, che continua a ricercare la giusta ispirazione e, con mestiere, di restituirla allo spettatore, chiudendo questo rapporto con Netflix con quella testa alta di chi ha donato alla piattaforma alcuni dei suoi titoli più validi.

Raramente, da collezionista, mi lamento di non avere in Blu-Ray le produzioni della grande N, a parte "Stranger Things" e, appunto, queste serie firmate dal buon Mike, e "La Caduta" è lì, insieme a "Hill House", "Bly Manor" e "Midnight Mass".

Ne ha la stessa piacevolezza, lo stesso ritmo, quella cadenza ipnotica per cui non senti la "fatica" come spettatore, e se non fosse per l'orologio che ticchetta in salotto, non ti renderesti conto del tempo che passa, che ormai è notte fonda e forse è meglio andare a dormire.

Ma senza la sensazione di spettri che ci osservano dietro agli angoli bui, perché stavolta l'unica presenza con cui fare i conti è quel riflesso che ci scruta da uno specchio!



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