ANCORA UNO POI BASTA - Hill House


La Paura. Sentimento antico, alle volte salvifico, alle volte letale.
La Casa. Il rifugio dell'uomo dall'esterno, la sua fortezza, la culla che dentro le sue confortevoli pareti fa sentire al sicuro, protetti.
Prendere questi concetti e unirli insieme ha sempre costituito le fondamenta del topos della "Casa Infestata".
Non c'è cosa più spaventosa del non avere un appiglio certo, di vedere con terrore quelle pareti, quei muri, quella fortezza che diventa prigione.
Lo sa bene Mike Flanagan, che per Netflix ha adattato in dieci puntate il romanzo omonimo di Shirley Jackson, a sua volta basato su una delle più famose ghost story d'America, regalandoci The Haunting of Hill House.
Verbo non a caso, perché, e lo dico da appassionato del genere, Hill House è un dono.


La paura sul piccolo schermo è difatti sempre un terreno minato.
Perché l'horror gioca sulla brevità, su una concentrazione di ritmo e di tempo, narrativo e di spavento, che deve necessariamente dilatarsi nelle esigenze televisive.
A meno di non giocare sporco ed osare, mischiando le dinamiche, come fanno da otto stagioni Ryan Murphy e Brad Falchuk in American Horror Story.
Dove l'orrore si fa teatro per la critica sociale, politica e di costume, quindi andando oltre certi confini specifici e facendosi altro.
Oppure, come nel caso della serie Slasher, altro antologico a tinte cupe, ma che punta più sulla carneficina da pazzo assassino che ad un sano jump scare da spiriti inquieti (del resto, il titolo già dice tutto).
Quindi è logico pensare che il caro, vecchio racconto di fantasmi fosse da ricercare solo nel buio del cinema, un genere che porta sempre successo al botteghino, se maneggiato con cura (ne sa qualcosa James Wan, che ha regalato alla Warner il suo universo condiviso, meglio di quanto abbia fatto la DC Comics, ma sto tergiversdando).
Il punto è  che The Haunting of Hill House merita attenzione per tanti motivi, in primis la storia.
Se pensate che dieci puntate da un'ora l'una siano troppe per un racconto horror, è probabile siate cresciuti anche voi con le miniserie realizzate partendo dagli scritti del Re del Terrore negli anni '90/primi 2000.
Storie che dilatavano l'esperienza di paura, costringendoti a maratone, con scene interminabili, dove la paura lasciava spesso spazio ad un ripetersi sempre uguale.
Penso a Rose Red (non a caso, anche lì, casa infestata) o a La Tempesta del Secolo, a Salem's Lot o allo Shining prodotto dallo stesso Stephen King in contrapposizione con quello, magistrale, di Kubrick (allerta spoiler: neanche a paragone!).
Mike Flanagan, che con l'horror classico, anche di stampo Kinghiano (basti pensare al suo Il gioco di Gerald, sempre Netflix) ha già dimostrato di saperci fare, prende quelle lezioni di narrazione televisiva e le fa sue, concedendosi ogni trucco registico e ogni sottigliezza caratteriale per farci rimanere sempre in tensione, ma sopratutto, senza accorgercene, farci entrare in un racconto che parla, anche e sopratutto, per metafora.


Perché la Paura è il sentimento più antico, quello che ci accompagna da sempre, e alle volte "un fantasma è solo un desiderio", per citare la serie.
Alle volte, ciò che ci fa paura è la Vita stessa, quella che si trova oltre le mura.
E quando cresci con la paura di tutto, allora forse non cresci mai del tutto.
Perciò devi tornare indietro, come attirato sullo scoglio da una malefica sirena, cercando di non infrangerti sugli scogli, desideroso solo di combattere quella Paura a muso duro ed uscirne, se non illeso, quanto mai vincitore.
Qui arriviamo ad un altro bell'elemento di Hill House: il cast.
Tutto ottimo, volti più o meno noti agli amanti delle serie TV, con una coppia di superbi caratteristi come Timothy Hutton (visto di recente anche in Jack Ryan) e Carla Gugino (che con Flanagan ha già lavorato nel succitato Gerald's Game), dolenti ed inquieti genitori di cinque figli connessi da un passato che li ha segnati profondamente, in più di un modo e momento della loro esistenza.
Si ritrovano per seppellire una di loro, in un incontro che sarà lo spartiacque tra ciò che hanno vissuto, ciò che hanno negato e ciò che mai davvero hanno affrontato.


Gioca con la metafora e con gli attori, Hill House (senza corsivo, parlo proprio della casa), giustificando, nell'ultimo episodio fiume, tutto ciò che ci ha accompagnato lungo le precedenti nove.
Senza quei dettagli, quelle ritornanze di schemi e livelli temporali, quell'andare avanti e indietro in un flusso dinamico di eventi e flashback, forse quelle note di chiusura non avrebbero lo stesso sapore, consegnando a noi appassionati lo splendido regalo di un racconto di fantasmi come King comanda.
L'ho nominato spesso, non a caso.
Perché  il Re del Terrore è stato come un nume tutelare di questa serie, dato poi che il regista lavorerà ancora con le sue storie (sarà lui a dirigere Doctor Sleep).
Quindi mi piace pensarlo come ispirazione per Flanagan.
Una cosa è sicura: Hill House è perfetto per Halloween e per concedersi, sotto le coperte, con una cioccolata calda, un piacevole brivido lungo la schiena e la certezza di un racconto classico, solido, come le mura spettrali di una villa infestata ai margini del bosco!
Voto 9

THE HAUNTING OF HILL HOUSE
Serie Netflix in 10 episodi, disponibile dal 12 ottobre
Diretta da Mike Flanagan
con: Carla Gugino, Timothy Hutton, Michiel Huisman, Elizabeth Reaser

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