THE CURSE


 
Maledizione!

Che è quello che potreste esclamare una volta terminata THE CURSE, la Serie TV con Emma Stone presente su ParamountPlus, e che arriva in un periodo in cui l'attrice è in cima alle discussioni social in questa Stagione dei Premi per "Povere Creature!".

Di sicuro, è quello che io ho esclamato ed esclamo ancora adesso, a due settimane dal finale, uno dei più strani, folli e senza senso che mi sia mai capitato di vedere.

Non lo dico per enfasi: è da quando l'ho visto che continuo a pensarci, a cercare uno straccio, anche misero, di spiegazione e nulla, a parte uno strano sentore di presa in giro.

E sicuramente son io che sbaglio, perché è impossibile che Nathan Fielder e Benny Safdie, creatori e co-protagonisti della faccenda, l'abbiano buttata giù senza una direzione, senza un obiettivo, salvo poi renderlo abbastanza difficile da decifrare per lo spettatore.

Anche perché, non è che le nove puntate precedenti l'apparente epilogo (al momento, non è ancora chiaro manco se è una miniserie o una "Stagione 1", cosa tenuta volutamente oscura) siano tutto questo percorso logico e scevro da dubbi, ma andiamo un poco con ordine.



"The Curse" parte infatti come una satira sui reality, in particolare quelli che potreste trovare su Real Time: Whitney e Asher (Stone e Fielder) sono una coppia, sentimentale e professionale, che sta cercando di sfondare nel vasto panorama di HGTV con il loro programma "Fliplanthropy", dedicato alle case passive.

Lo sguardo con cui ci vengono presentati è abbastanza cinico, mirando ad abbattere tutto quel perbenismo di facciata che spesso prova a indorare storie che non esistono: i due infatti, dietro i sorrisi di circostanza per le telecamere (le sequenze di "Fliplanthropy" sembrano quelle proprio quelle che potreste vedere facendo zapping in TV su certi canali tematici), hanno forti problemi di coppia, non sono solidi come provano a vendere alla produzione.

Ne sa qualcosa Dougie (Safdie), amico di Asher sarcastico e pieno di sè, che si occupa di dirigere e mettere in piedi il programma per venderlo al network.

Whitney vive della vanagloria di essere "dalla parte giusta", pensando di fare del bene e dell'Arte con queste sue case passive, convinta di essere culturalmente vicina ad una sensibilità che non le appartiene, e così facendo di dare una mano alla comunità locale, quella dei nativi, dalla quale non accetta di sentirsi esclusa, ma con la quale vorrebbe integrarsi, sbagliando per superficialità e pochezza d'intenti.

Asher, di par suo, vive all'ombra di lei, un piccolo uomo con insicurezze grandi come una casa (passiva come lui), che non risiedono solo nel fatto che ha un micropene (cosa che viene ripetuta spesso e mostrata pure, quindi non me lo sto inventando per cattiveria).

È lui che si becca la maledizione del titolo, lanciata da una bambina dopo essere stata ingannata a beneficio delle telecamere: una frase apparentemente innocente, un "Io ti maledico" detto con quella enfasi che possono avere solo i piccoli, ma Asher, sempre più col procedere della storia, si persuade che in quell'innocuo atto si nasconda la fonte di tutti i suoi malanimi.

Ve la sto facendo relativamente breve, anche perché a ben guardare, idealmente la trama generale è tutta qui: per nove episodi, vi troverete davanti una serie, talvolta anche abbastanza lenta, ripresa spesso con inquadrature rubate, piena di discussioni accese che sfiorano e travalicano il disagio puro, mentre non sembra accadere virtualmente nulla di rilevante, solamente si cerca di portare a casa questo programma TV.

Non ci sono eventi di chissà che portata, non ci sono colpi di scena, semplicemente tutto sembra incrinarsi verso il disastro, di coppia e televisivo, con tematiche che vanno dalla vacuità dello showbusiness alla tossicità di relazioni e mascolinità ferita nell'orgoglio, dall'appropriazione culturale sino all'ipocrisia di chi pensa che, in fondo, i soldi non faranno la felicità ma sono la lingua universale a tutte le latitudini, anche morali.

Anzi, spesso ci sono linee narrative che non capisci bene dove vogliano davvero andare a parare o che vengono più o meno accantonate, come quella relativa alla piccola Nala (la bambina che ha lanciato la maledizione) e la sua famiglia, a cui Whitney e Asher donano un tetto, oppure quella sui genitori di lei, oppure ancora tutto il discorso relativo a Dougie e alla moglie morta in un incidente automobilistico in cui lui era alla guida.



"The Curse" è difficile da inquadrare, perché dire semplicemente "commedia satirica" non rende minimamente conto di quanto respingente sia tutto questo, nel suo complesso.

Non pensiate voglia a tutti i costi convincervi a non guardarla, ma se doveste dirmi: "Al secondo/terzo episodio ho lasciato perdere", credetemi, avete tutta la mia comprensione, potete dire di esserne usciti a testa alta, francamente.

Ma allora, perché mi sono sorbito queste dieci puntate, viste religiosamente di settimana in settimana? Per curiosità? Per spirito critico? Per testardaggine da serializzato?

Forse, un poco tutto questo, ma sopratutto per Emma Stone.

E sì, certo, se c'è un motivo per iniziarla è sicuramente la sua presenza nel cast, nonché il suo nome nella lista dei produttori esecutivi, a conferma che lei nel progetto ha creduto, dando davvero tutta sè stessa.

Perché, episodio dopo episodio, concede di assistere ad una formidabile lezione di character study. Le sue espressioni, il modo di recitare e di muoversi, la capacità, rara ed insita in quello che si chiama talento, di costruire quasi da zero il personaggio di Whitney, di caricarlo con poche ma misurate mosse di una sgradevolezza importante, al punto che odi amarla e ami, profondamente ami, odiarla.

È nella sua interpretazione che "The Curse" opera la sua malia sullo spettatore, è lei che ti tiene avvinto per quei 50, 60 minuti di episodio, il vederla interagire con il marito Asher (un Nathan Fielding che lavora di imbarazzo e sottrazione) o l'artista Cara (Nizhonniya Luxi Austin), con la quale ha un rapporto di falsa, falsissima amicizia.

Davvero, una prova d'attrice in puro stato di grazia, la perla nascosta in un WTF imbottito di cringe (non un termine che amo utilizzare, ma non riesco davvero a trovarne un altro che sia altrettanto calzante). Perché ci sono dei momenti dove inquadratura, dialoghi e musica ti mettono in una condizione tale che è come guardare da uno spioncino un incidente nel suo pieno svolgimento, al rallentatore.



È un racconto di persone orribili, che spesso fanno cose... non orribili quanto patetiche, in nome di un successo effimero come quello che potrebbe garantire un reality show, cercando di mettersi l'anima in pace facendo del bene in cui non credono veramente (o almeno vogliono illudere gli altri del loro politicamente corretto).

Così, per nove puntate, al punto che superata la boa e puntando decisi verso il finale, sei persino, ostinatamente, curioso di vedere la fine.

Una fine che non spoilero, perché impossibile da raccontare senza sembrare matti.

Potrei dirvi "Vedere per Credere".

Ma ho paura che poi sarete voi a maledire me!


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